maperò – Il blog di Lilli Mandara
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  • ·L’eterno ritorno·

    Postato il 21 Febbraio 2021
    A cura di Marco La Greca

    Entrando in un negozio di abbigliamento giovanile, mi rendo conto che gli stili ritornano, tutti. Già qualche anno fa mi ero sorpreso a scoprire che erano tornati di moda gli orologi della Casio, quelli che la mia generazione aveva scoperto tra le elementari e le medie, avventurandosi nella tecnologia, nelle fantastiche possibilità del futuro: non era mai successo che l’orologio da polso potesse offrire, insieme all’ora, anche il cronometro, la sveglia, la luce. Improvvisamente, nessuno ne poteva fare a meno. Embrionali forme di smartwatch, rappresentavano il moderno, che a un certo punto, però, venne dismesso, quando tornarono di moda le lancette, i funzionamenti meccanici. Quegli orologi digitali, orrendi se visti con il mio sguardo attuale, sono incredibilmente tornati di moda pochi anni fa e tuttora sono al polso degli adolescenti di oggi. Si tratta proprio di quei modelli, con quelle basiche funzionalità, quello stile, quel marchio. 

    Aggirandomi per gli scaffali del negozio di abbigliamento, penso che per fortuna a un certo punto si è affermata per i jeans una linea “a tubo”. Perché detestavo, indosso a me, sia le “zampe d’elefante” che i pantaloni larghi e corti, magari pure con il risvoltino, degli anni ’80. Anche se, ovviamente, ho passato quelle fasi, cercando di adeguarmi, per come potevo, a ciò che andava di moda. Mi viene in mente quando, usciti vincitori dalla trattativa intavolata per tempo con i nostri genitori, con il mio amico di sempre andammo, timidi quindicenni, in un negozio molto simile a questo e comprammo il piumino che serviva per essere all’altezza della situazione, per non essere almeno guardati come animali strani. Ce lo comprammo della stessa marca, dello stesso colore, della stessa taglia. Erano gli ultimi due rimasti, ma comunque il fatto che fossero identici servì in qualche modo a farci coraggio nell’acquisto. Evocati dagli oggetti, risuonano nella mente voci e parole: mie, degli amici, dei miei genitori, di chi era con me. Cazzeggi e raccomandazioni. 

    E’ con la dolcezza del ricordo di quei tempi e dell’amoroso sguardo paterno che mi accorgo, salutando mia figlia in procinto di uscire con le amiche, che indossa dei jeans corti, con il risvoltino, e come soprabito un piumino, anch’esso corto e gonfio, che ricorda precisamente quello indossato dai “paninari” dei miei tempi. Sembra uscita da una foto degli ‘anni 80. Potrebbe essere una mia compagna di classe. Prima di uscire controlla l’ora, al polso ha l’orologio della Casio. La accompagno alla porta e la saluto con un bacio sulla fronte: “Divertiti”, le dico, “ma fai attenzione a tutto, mi raccomando, e non fare tardi”. Perché l’eterno ritorno, capisco nel momento stesso in cui pronuncio queste parole, non riguarda solo gli abiti e gli oggetti.


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  • ·E allora cucino·

    Postato il 7 Febbraio 2021
    A cura di Marco La Greca

    Ho iniziato a cucinare da adulto, per necessità. Ricette elementari, sughi pronti, surgelati. Poi le pappine e le merende per i figli. Pure lì, ricette elementari. Ai piatti buoni, alle ricette più elaborate, alle sperimentazioni, pensava mia moglie. Quando toccava a me, con i bambini già un po’ più grandi, e mettevo l’acqua a bollire, calavo e poi scolavo la pasta, condivo, e vedevo mia moglie e loro mangiare senza lamentarsi, senza dire “la prossima volta, chiamami” o “papà che schifo, ridacci mamma”, mi sembrava un miracolo. E mi si apriva il cuore. 

    Sono cresciuto venendo preso in giro perché non sapevo cucinare, tanto da fare di questa mia inabilità un aspetto identitario. Ero ovviamente in grado di cavarmela, al bisogno. Sempre senza cucinare. A pane e prosciutto, mozzarella e pomodori, insalata e tonno, sarei potuto andare avanti per mesi. 

    Avevo però vissuto le storie della cucina. A casa, dai parenti, dagli amici. Il calore della pentola sul fuoco, del forno acceso, degli odori che si spandevano. E poi “che buono”, “che profumo”, “non finirei mai di mangiarlo”, e quell’espressione di soddisfazione, di appagamento, quasi di gioia, negli occhi di chi aveva preparato. La vedevo, anche se non la comprendevo del tutto. 

    Un giorno i miei bambini, sempre rispetto al mio consueto piatto elementare, non solo non si lamentarono, ma dissero: “buono”, “sì, sì, proprio buono”.  Non ci volevo credere. Non sapevano che l’avevo preparato io, non volevano compiacermi, lo trovavano buono per davvero. Era una sera come tante, un piatto come tanti. Per me una sera speciale. Chissà se hanno incrociato i miei occhi e visto quell’espressione, quella gioia nel mio sguardo. 

    Poi un giorno a casa mia c’era Gina, sarebbe lungo da spiegare chi fosse, comunque una figura fondamentale, mi ha cresciuto con i suoi manicaretti, ed io le ho chiesto: “senti, mi insegni a cucinare i biscotti di pasta frolla che preparavi quando eravamo bambini, e venivamo sempre a chiederti di assaggiare l’impasto?”. Li cucinava per me e per mio fratello. E mi ha insegnato, ho infornato, ho sentito quell’odore. Allora poi ho preso due biscotti appena sfornati e li ho portati a mio figlio, che stava di là, a giocare con un suo amico, lasciandoli sul tavolo: “li metto qui, se vi va di assaggiarli…”. Dopo qualche minuto, lui e il suo amico si sono presentati in cucina, avevano la bocca piena: “Papo, ne hai altri?”.  A me per poco non venne da piangere.

    Adesso succede questo, certe volte. Mi viene un po’ di nostalgia, soprattutto la domenica pomeriggio, soprattutto quando comincia a fare buio, d’inverno, con il brutto tempo. Non è più la tristezza angosciosa che provavo ai tempi della scuola, anche se qualcosa mi ricollega a quel sentimento. Direi che è più una malinconia. 

    Allora mi metto in cucina, raccolgo gli ingredienti, metto su una playlist musicale che nel frattempo ho creato per accompagnare questi momenti, e impasto. E mentre impasto, penso e ricordo; vedo, ascolto, rivivo. Preparo un dolcetto per mia moglie, uno per mia figlia, uno per mio figlio. Secondo le preferenze che hanno manifestato. Prima faccio assaggiare un po’ dell’impasto crudo, solo un po’, sennò non ne ho abbastanza. Poi inforno e sento quell’odore. 

    Quando assaggiano e capisco che è andata bene, a me viene, lo so, quell’espressione di soddisfazione, di appagamento, quasi di gioia. Mia moglie la conosce; i ragazzi la vedono, la riconoscono, anche se forse non la comprendono del tutto. E però. Un giorno, chissà, pure loro, la domenica pomeriggio…


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  • ·Il topo che va a scuola·

    Postato il 24 Gennaio 2021
    A cura di Marco La Greca

    Adesso che, almeno nella mia regione, è ricominciata la didattica in presenza anche nelle scuole superiori, sia pure al cinquanta per cento, mi è tornato alla mente un episodio di tre mesi fa; era ottobre, e pure allora la didattica in presenza si alternava a quella a distanza. Dovevo andare a ritirare un certificato a scuola di mia figlia e scendendo dalla macchina, appena parcheggiata all’inizio della via che conduce all’Istituto, notai un topo: stava lì, incurante del via vai di persone, e rosicchiava qualcosa che teneva tra le zampe anteriori. Mostrava una tranquillità stupefacente, che era però nell’aria. L’atmosfera era molto diversa da quella che, nel ricordo, attribuisco al mio tempo scolastico, quando  si  univano mestizia e allegria, rassegnazione e sfrontatezza. Accadeva alle otto e trenta, l’ora fatidica, la stessa in tutta Italia, nella quale iniziava un’avventura collettiva: la giornata di scuola, con le sue palle, ma anche i suoi interessi, con le sue fatiche e le sue risate. Si trattava di mozioni, movimenti mentali, stati d’animo Però vissuti stando insieme agli altri. 

    Non credo che il compito principale della scuola sia trasmettere le nozioni. Quelle sono, penso, il mezzo attraverso cui insegnare altro: affrontare la fatica e gli ostacoli, saper soffrire, superare le avversità. Imparare a cavarsela, insomma. Se è  questo il vero insegnamento della scuola, certo lo si può apprendere  anche con la didattica a distanza, ma in presenza è un apprendimento più completo, perché riguarda anche l’aspetto relazionale. Le difficoltà, a volte, riguardano proprio o anche il rapporto con il gruppo, l’altro sesso, il professore, stare alla lavagna e parlare alla classe, con tutti davanti, fermi, ad aspettare che l’interrogato dica qualcosa, al limite pure una battuta, se non ha idea di cosa gli è stato chiesto. 

    Ho letto diversi articoli sull’adolescenza mancata, sulle emozioni e le esperienze non vissute che questo periodo di pandemia sta imponendo a una generazione di ragazzi. I 14, i 16 i 17 anni non tornano. Come non tornano l’esame di maturità e i cento giorni, le assemblee e i picchetti, le sigarette al bagno e il passaggio davanti a quell’altra classe per intercettare lo sguardo o il sorriso a cui tieni di più.

    Non tornano nemmeno i 50, i 60 e gli 80 anni, chiaro. Anche a noi è stato tolto qualcosa, in termini di vita. Non però di esperienza, non quanto a loro, almeno.

    Quel giorno di ottobre, comunque, percorsi i 150 metri che mi separavano dall’ingresso della scuola, entrai nell’Istituto, ritirai il mio certificato e mi avviai di nuovo verso la macchina. Mentre tornavo, mi resi conto di non avere sentito una campanella, di non avere visto fumare una sigaretta. Non c’erano odori, non c’era sudore, non c’erano brufoli. Non c’era paura, attesa, desiderio.

    Al mio ritorno, il topo era ancora lì e continuava a rosicchiare, tranquillo. Non si sentiva in alcun modo in pericolo. Perché davvero, intorno a lui era come se non ci fosse nulla.

    Sbrighiamoci a mandarlo via, questo maledettoCovid-19. Ci sta levando troppo. Tutto un insieme di sentimenti ed emozioni che non è propriamente ciò che ci tiene in vita. Questo no. Però è ciò che ci fa sentire vivi. Questo sì.


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  • ·L’ultimo scatolone·

    Postato il 10 Gennaio 2021
    A cura di Marco La Greca

    Attacco il nastro adesivo sull’ultimo scatolone e noto i consistenti strati dei precedenti imballaggi, uno per ogni anno. Proprio mentre sulla playlist, avviata in modalità casuale, arriva il momento di Guccini che canta “O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia”. 

    Con mia moglie abbiamo cominciato quando siamo andati a vivere insieme: l’8 dicembre, o giù di lì, al limite prima, mai dopo, montavamo albero e il presepe, che il 6 gennaio smontavamo. Quell’anno, molti anni fa, il primo imballaggio, precisamente nel giorno dell’Epifania, che tutte le feste porta via. Era stato il primo Natale sotto lo stesso e nostro tetto. Poi sono venuti il primo Natale da sposati, con nostra figlia, nella casa nuova, con nostro figlio; il primo Natale con loro a scuola, sul passeggino, poi sulle loro gambe, con il primo dentino caduto, sapendo leggere, avendo imparato ad andare in bicicletta e via crescendo. E’ stato con loro e grazie a loro se abbiamo dato corpo a un desiderio anche nostro, latente e inespresso, quello del “Ma chi l’ha detto che il 6 gennaio bisogna togliere tutto?”. A loro, ai bambini, dava dispiacere, quasi dolore, a noi forse pure, e, seguendo la traccia del desiderio infantile, conscio o inconscio, abbiamo cominciato a protrarre gli addobbi, le feste. Potrei sbagliarmi, e però mi sembra che un anno addirittura siamo andati avanti sino a fine gennaio. Abbiamo continuato anche quando è cominciato ad arrivare qualche Natale, per la prima volta, “senza”. Senza qualcuno, qualcosa, molto. E’ allora anche per compensare, forse, che continuiamo a tirare per le lunghe. Per compensare, per tenere, mantenere, ricordare.

    Ecco, ho attaccato il nastro adesivo sull’ultimo scatolone. Arriverà il momento, mi dico, in cui dovrò togliere questi strati precedenti per riuscire a chiudere lo scatolone. Questi stessi scatoloni che all’inizio erano uno, forse due, e ora sono otto, forse di più, con le scritte “Luci Natale”, “Presepe”, “Presepe bimbi”, “Luci bimbi”, “addobbi vari” e via annotando. Cambieremo e aggiorneremo le scritte. Intanto Guccini ha finito di cantare “O giorni, o mesi che andate sempre via, sempre simile a voi è questa vita mia”. La casa ora sembra spoglia. Più tardi, aiutato dai ragazzi, porterò tutto in cantina. Tornando su, mi parrà tutto più triste. Ma durerà un po’, qualche ora. Il tempo di andare a dormire, svegliarsi e riandare a dormire. Poi cercheremo e troveremo il calore nel quotidiano. La carezza della normalità. In un periodo che di normale non ha proprio nulla, è questo il vero Natale.


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