maperò – Il blog di Lilli Mandara
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  • ·San Lollo·

    Postato il 23 Gennaio 2022
    A cura di Marco La Greca

    Dopo molti anni sono tornato nel quartiere San Lorenzo, per accompagnare mia figlia e una sua amica a passare una serata con dei loro amici. Personalmente frequentavo San Lorenzo, che i ragazzi adesso chiamano “San Lollo”, ai tempi dell’università. Parcheggiavo a piazzale del Verano, davanti all’ingresso dell’omonimo cimitero monumentale. Mi ci avvicinavo con guardinga diffidenza, costretto dalla cronica carenza di parcheggi delle strade attorno all’università. In quel piazzale, invece, si trovava sempre, o quasi sempre, uno spazio nel quale si poteva lasciare la macchina, a cavallo tra il consentito e il vietato, confidando in un certo grado di tolleranza da parte dei custodi della viabilità. Nei giorni e nelle ore di maggiore traffico, avevo imparato a infilarmi in una viuzza che raggiungevo  passando davanti alla basilica di San Lorenzo, poi all’ingresso del cimitero, quindi a una bottega specializzata nella realizzazione di lapidi, infine davanti agli uffici cimiteriali. Non era un luogo accogliente, diciamo la verità. L’aspetto singolare è che in quel periodo ero di una superstizione patologica che mi costringeva, in prossimità del piazzale, a delle scaramantiche liturgie che cessavo solo nel momento in cui varcavo il cancello dell’università. Il fatto è che al primo esame avevo parcheggiato lì ed era andata bene, per cui, proprio in quanto superstizioso, non potevo che continuare a ripetere gli stessi itinerari e gesti. Per osmosi superstiziosa, piazzale del Verano era il parcheggio d’elezione anche per le serate “mondane”, che poi mondane erano molto poco, ma comunque pure esse ambientate a San Lorenzo, che era allora, fondamentalmente, il quartiere delle pizzerie. Ce n’erano tante, tutte alla buona, dai prezzi popolari e dalla qualità non eccelsa. Pizza romana, sottile, spesso cruda, inondata di sugo un po’ acido, accompagnata da supplì e birra d’ordinanza. Quante ne ho passate di serate così, partite con una certa compagnia, nella speranza che accadesse qualcosa di nuovo, che ci fosse un sorriso, un saluto e poi un approccio; al tavolo accanto, in fila per pagare, anche fuori del locale. Ma niente. Le serate iniziavano e finivano con le stesse persone con cui erano iniziate. Qualche volta pure con qualcuno di meno perché a un certo punto “Rega’, scusate, domani…” e allora uno, poi due e pure qualcun altro andavano via. 

    L’altra sera, nell’accompagnare mia figlia e la sua amica, ho notato dei cambiamenti nel quartiere, dei quali del resto avevo letto nel tempo. C’è più mondanità, anche se sempre del tipo conviviale. Le pizzerie si sono trasformate in vinerie e aperitiverie. C’è molta gente in strada. Mi colpisce un bar che si autodefinisce “dei belli”. Più avanti resiste una trattoria, più in là ancora una pizzeria che c’era anche ai miei tempi. Il mobilio, gli avventori e i camerieri sembrano usciti da una foto di 30 anni fa. Li guardi e pensi: quanto futuro ha ancora un locale così? 

    E’ cambiato molto in questi anni. Sono del resto cambiato anche io. 

    Sulla via del rientro, ho deliberatamente deviato per piazzale del Verano e, imboccata l’antica viuzza, sono passato davanti alla bottega specializzata in lapidi, poi agli uffici cimiteriali. Ho rivisto il punto in cui trovavo quasi sempre parcheggio, a cavallo tra il consentito e il vietato e perciò tollerato dai custodi della viabilità. Andando via, sono passato serenamente davanti all’ingresso del cimitero, senza compiere nessun gesto scaramantico. Forse avrei dovuto, perché poco dopo sono stato fermato a un posto di controllo. Era da tempo che non accadeva. Patente, libretto e assicurazione. Tutto in regola. Persino la revisione. Anche questo non accadeva da tempo. 

    Terminato il controllo, ho ripreso la strada di casa. 

    Mentre percorrevo la via Tiburtina, nel tratto che fiancheggia il cimitero, ho rivolto un pensiero e un saluto a chi ora si trova lì. “Uno di questi giorni vi vengo a trovare”, ho promesso. 


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  • ·Una favola per Natale·

    Postato il 20 Dicembre 2021
    A cura di Marco La Greca
    Andre Giroux – Santa Trinita dei Monti in the Snow, 1828

    Ho cercato una storia, o meglio una favola per Natale, ma non l’ho trovata. Ho pensato allora di provare a immaginarla. Non tanto una favola con un inizio e una fine. Più una breve lista di desideri. La mia letterina a Babbo Natale.

    Vorrei ci fosse la neve, innanzi tutto. Non ho mai passato un Natale con la neve, nemmeno quell’anno in cui andai con gli amici in settimana bianca, perché mi pare partimmo il 27 dicembre, a Natale e Santo Stefano già fatti. Sarebbe bello, invece, affacciarsi alla solita finestra, la mattina del 25 dicembre, e trovare le case, le strade e le macchine coperte di bianco. E’ capitato qui a Roma, un anno, nel giorno dell’Epifania, e fu bellissimo. Sarebbe ora che accadesse anche a Natale, per giocare a palle di neve, scivolare per le discese innevate, bagnarsi e poi riscaldarsi. 

    Vorrei ricostruire quella casa diroccata, vuota e abbandonata da troppo tempo. Per far rivivere chi la abitò. 

    Vorrei poter vedere di nuovo le persone alle quali ho voluto bene. Parlare, ballare, brindare, ridere e piangere anche con loro. 

    Vorrei incontrare le persone che ancora non ci sono e che verranno. 

    Vorrei che ogni bambino venisse esaudito nel suo desiderio più grande. Ma pure i ragazzi. E anche noi adulti, perché no?

    Vorrei che gli ospedali si svuotassero. Che ci fosse la pace in ogni angolo della terra, in tutte le case e in ogni momento della vita di ciascuno. E con la pace, anche amore, prosperità e salute. Che nessuno debba sentirsi solo. Che nessuno debba morire per sperare di vivere. Che il mondo, questo mondo, fosse un luogo in grado di accogliere tutti, uno per uno, senza distinzioni di razza, sesso, religione. Che ognuno possa trovare e poi essere sempre se stesso, insieme agli altri. 

    Vorrei, poi, che il tempo fermasse i suoi rintocchi su un momento eternamente felice. 

    Qualcuno deve avermi detto, quando ero bambino, che per avere quello che vuoi è sufficiente chiudere gli occhi e immaginarlo. Perché è una cosa che faccio, ogni tanto, soprattutto quando sento che qualcosa, o molto, non va. Quindi ora chiudo gli occhi, e quello che ho scritto prima è davanti a me.

    Grazie Babbo Natale.


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  • ·Passeggiando in bicicletta·

    Postato il 5 Dicembre 2021
    A cura di Marco La Greca

    La vita è spesso un cerchio. Anzi molti cerchi. In questa mia fase di mezza età, un cerchio è rappresentato dalla bicicletta. 

    L’ho riscoperta l’estate scorsa.. Forse è stato quando in un mercatino ho incontrato e subito acquistato un classico esemplare da passeggio anni ’80. Pensavo di darla a mio figlio quattordicenne, che però, non potendo provare le mie stesse vibrazioni vintage, ha visto l’oggetto per ciò che era: una bicicletta in buono stato ma vecchia, scomoda, lontanissima dal design attuale. L’ho tenuta per me e a lui ho passato la mia, che era invece un  più recente regalo di mia moglie, quindi di aspetto accettabile, dal suo punto di vista. 

    Qualche giorno dopo, volendo andare a trovare mia madre, ho pensato di montare in sella e ho percorso, con inaspettata facilità, i dodici chilometri di andata e di ritorno. Ho così riscoperto la bici nella sua antica funzione: quella del viaggio. Sì, perché in un tempo in cui non avevo né macchina, né motorino, la bicicletta era per me, durante le vacanze, l’unico  mezzo di trasporto e di viaggio. Il pomeriggio, o certe mattine nuvolose, montavo in sella e viaggiavo, con il corpo e con la mente. Andavo nei viali circostanti e guardavo le case, le macchine parcheggiate; immaginavo le vite che le abitavano e le persone che le guidavano. Ovviamente sognavo, un giorno, di stare anche io al volante di un’automobile. Intanto, però, avevo la bicicletta, con la quale mi spingevo sino all’edicola di Golfo Sereno, per comprare Alan Ford, che pure mi faceva immaginare luoghi e vite diverse. Altre volte, invece, partivo proprio con l’intenzione  di raggiungere una meta per me lontana. Partivo da solo, in genere, ogni tanto con qualche amico che condivideva il desiderio di esplorare. A Terracina, per esempio, andai con Roberto. Dieci chilometri percorsi di slancio, all’andata. Al ritorno, con il vento contrario,  una sofferenza; stavamo quasi per mollare, accostare da qualche parte e con il gettone telefonico che sempre i ragazzi responsabili portavano con sé, chiamare per chiedere aiuto, quando riconoscemmo il profilo di un edificio che ci fece sentire vicini a casa. Compiuta l’impresa, la sensazione fu di forza e di libertà.

    Non ricordo quando ho imparato ad andare in bicicletta senza le rotelle. Ho solo qualche ricordo in bianco e nero: l’asfalto chiaro della strada del mare, la mano di mio padre che tiene il sellino, i pini vicino al mare. Di lato, parcheggiate, le macchine di allora: un’Alfetta, una Fiat 128, una Lancia Fulvia. 

    Ricordo molto bene, invece, il momento in cui ho insegnato ai miei figli. Prima lei, aveva cinque o sei anni: tenevo la sella, lasciavo per qualche istante, poi per qualche secondo – “Vai che stai riuscendo”-, poi per qualche secondo in più, – “Dai, ci sei” – fino a che lei andò,  io rimasi dietro, e da lì esultai, a voce alta -: “Vai amore mio, vai, sei libera!”. Due anni dopo la scena si ripeté, più o meno uguale, con mio figlio.

    Insomma dopo la riscoperta dell’estate scorsa, ora prendo la bici; di domenica, in genere, e giro per Roma. Ci sono le ciclabili, adesso, che permettono di pedalare in sicurezza. Ne ho scoperta una che dal mio quartiere arriva fino a Monte Antenne. Ho pedalato in salita, sottovalutandone la difficoltà, e ho pensato di mollare, come quando con Roberto tornavo da Terracina, però poi a un tornante m’è sembrato di intravedere il profilo oramai in rovina del Forte, e mi sono fatto forza. Sono arrivato sino a su. Ho sentito la stessa sensazione di forza e libertà di quando ero ragazzo. 

    La fusione perfetta tra passato, presente e futuro, si è realizzata quando la mia applicazione musicale ha proposto la canzone di un artista ultra contemporaneo, e in quel preciso momento è comparsa una Lancia Fulvia; sembrava uscita da uno dei miei ricordi in bianco e nero, con  la targa che indicava la provincia di immatricolazione. Me la sono vista passare davanti e prendere la via Salaria, in direzione autostrade. Veniva dal passato, ma aveva ancora la forza, oggi, di viaggiare verso il futuro. 

    Ispirato da questa visione, sulla strada del ritorno mi sono fermato dal giornalaio e oltre ai quotidiani ho comprato l’ultimo numero di Alan Ford. 

    Una volta a casa, mi sentivo un supereroe, con i miei venti chilometri di saliscendi in bicicletta. Nel pomeriggio, per la verità, m’è venuto un discreto mal di schiena. Ma non fa niente. Aspetto che passi. E domenica prossima, se il tempo lo permette, parto di nuovo.  Il cerchio non è ancora chiuso.


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  • ·Ricorrenze·

    Postato il 14 Novembre 2021
    A cura di Marco La Greca

    Ognuno ha le proprie ricorrenze. Come tutti, anche io ho le mie ed è proprio dei giorni scorsi quella della mia laurea. Quest’anno, non so perché, ci ho pensato più delle altre volte. Ho iniziato la notte, dormendo agitato. E’ stato al risveglio che ho preso consapevolezza della ricorrenza. Da lì, ho rivissuto un po’ tutto. Mio padre che mi ricorda l’importanza di iscriversi al registro dei praticanti avvocati in quello stesso giorno, l’ultimo utile per potere poi sostenere l’esame di abilitazione dopo due anni e non tre. Io sul terrazzo di casa che continuo ripetere il discorso di presentazione della tesi. Sullo sfondo il panorama che aveva accompagnato tutte le mie giornate sin da quando ero nato. La percezione, ad un tratto, di essere diventato grande. Nel pomeriggio l’attesa nel corridoio dedicato alla sala delle lauree, con gli amici intorno, ed io che ripeto: “Non voglio nessuno dentro, ok?”. E quando poi arriva il mio turno ed entro, mentre la porta si chiude alle mie spalle, la mia amica che, giunta in ritardo e non avendo potuto ascoltare la mia intimazione, s’infila nella sala. Fui contento di saperla lì. E lei mi faceva il verso, dopo, ripetendo l’avverbio “plausibilmente”, del quale, evidentemente, avevo fatto un uso smodato. Ricordo poi un’altra amica che arriva sorridendo, dopo la discussione, regalandomi un mazzo di fiori. Cinque anni dopo con lei ci saremmo innamorati, e poi sposati.
    Mio padre ed io salutammo tutti, a un certo punto, perché avevamo l’appuntamento al Consiglio dell’ordine; riuscii a iscrivermi all’ultimo tuffo, guadagnandomi così la teorica possibilità di guadagnare un anno. Possibilità che ovviamente non sfruttai. Ho spesso fatto in modo di sprecare il tempo, quando l’ho avuto. Servì, però, quel passaggio a vuoto, a darmi grinta e determinazione per i successivi appuntamenti di esami e concorsi.
    Tornato a casa, trovai gli amici che erano venuti all’università e poi i parenti che i miei genitori, a mia insaputa, avevano allertato. Fu un bel pomeriggio: di soddisfazione, amicizia, affettuosità. Ho una foto da qualche parte che mi fa ricordare precisamente come mi sentivo. Non sapevo nulla, ovviamente, di quel che sarebbe successo dopo. Sapevo solo che di lì a tre giorni, con l’iconico biglietto di sola andata pagato dall’esercito, sarei andato ad Alessandria, alla scuola allievi agenti della Polizia di Stato, per la leva militare. Mia madre mi diceva di non andare, perché nei giorni precedenti, nella zona, c’era stata una grave alluvione. Come se gli obblighi militari fossero rinviabili per l’apprensione materna verso gli eventi metereologici.
    Da allora oggi sono passati 27 anni, corrispondenti a 9.855 giorni, a loro volta pari a 236.520 ore. Un tempo durante il quale sono accadute una miriade di cose. Credo non me ne aspettassi nessuna, mentre giravo per Roma, di notte, e mi proiettavo in avanti.
    Ho fatto quello che fanno tutti: ho cercato, desiderato, atteso, voluto, provato, sofferto, odiato, amato. Ho vissuto, insomma. E vivo, ringraziando Dio, continuando a non sapere cosa accadrà domani. Con questa consapevolezza, mi viene da sorridere, adesso.


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