maperò – Il blog di Lilli Mandara
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  • ·Quattro passi·

    Postato il 11 Aprile 2021
    A cura di Marco La Greca

    “Andiamo a fare la spesa”. “No, per favore, siamo stanchi”. “Su, saranno quattro passi”. Mio fratello, che aveva vanamente condotto la trattativa sindacale, anche nel mio interesse, per restare a casa, contò i passi: “Uno, due, tre e quattro. Fatto, torniamo indietro”. 

    ***

    Il telefono cellulare, grazie a un’applicazione integrata con il sistema operativo, mi comunica sistematicamente i passi che compio. Non sono io a chiederglielo. Lui, però, conta e comunica. Dal bagno al salone sono 22 passi. Dalla cucina alla camera di letto 29. Il cellulare  mi informa costantemente, a condizione che io l’abbia con me, s’intende. Tiene traccia di ogni piccolo spostamento. Scopro così, alla fine di giornate che pensavo fossero state sedentarie, di avere raggiunto l’obiettivo quotidiano, che, sempre per sua unilaterale decisione, è fissato a 5100 passi; ciò è possibile perché viene contato ogni singolo spostamento, anche se mi alzo per socchiudere le ante della finestra. Tutto fa brodo nel conteggio della salute digitale e virtuale. 

    Ogni tanto vado a curiosare nelle statistiche settimanali o mensili di questa mal sopportata applicazione; leggo allora dei giorni di picco delle attività e di quelli più sedentari. Provo a tracciare una media e la proietto sui giorni passati, per calcolare quanti passi può essermi capitato di fare sin qui. Certo – penso – nel calcolo dovrei applicare un correttivo al rialzo, per quando ero giovane, non guidavo, e mi muovevo solo e sempre a piedi o con i mezzi. Per non parlare delle lunghe estati passate a giocare, correre, nuotare. 

    Non mi va di guardare indietro.

    Allora provo a lanciarmi in un calcolo in avanti, sui giorni che verranno e sui passi che mi potrebbe capitare di muovere da qui in poi. Certo – penso – su questa proiezione dovrei applicare un correttivo al ribasso, considerato il progressivo e naturale logoramento dovuto all’età, oltre a un coefficiente statistico per eventuali eventi avversi. 

    Mi fermo. 

    ***

    Come mio fratello condusse la rivendicazione dei bambini contro il mondo adulto, perdendola, perché venimmo costretti ai famigerati “quattro passi” (che quattro non erano affatto), ora mi assumo il compito di condurre la duplice rivendicazione dell’uomo contro il mondo digitale e contro il tempo. Perderemo certamente la guerra. Intanto, però, proviamo a vincere qualche battaglia. Basta un gesto semplice. Adesso, per esempio, prima di avviarmi alla passeggiata domenicale, nel consueto giro edicola-supermercato-pasticceria, disattivo l’applicazione. Anzi, lascio proprio il telefono cellulare a casa. Non  glielo voglio dire; quanti passi ho fatto e quanti ne potrò fare; ieri, oggi e domani. Non voglio che lo sappia lui. Ma soprattutto non voglio saperlo io.


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  • TAG: easy writeril raccontoMarco La GrecaQuattro passi



  • ·Un anno di lockdown·

    Postato il 28 Marzo 2021
    A cura di Marco La Greca

    Un anno di Covid, tra lockdown e zone colorate, porta a tentare dei bilanci.

    Mi sembra innanzi tutto che gli anni siano quattro e non uno. Forse perché ragiono  ancora ad anni scolastici o a campionati di calcio, e il Covid ha preso due campionati, il 19-20 e il 20-21. Con due stagioni biennali mi viene quindi da dire che gli anni sono quattro. Un calcolo un po’ alla Totò, vero?

    Ho speso meno in benzina. Conseguentemente anche la macchina ha avuto un’usura assai inferiore. Lo stesso per i gli abiti da lavoro. Almeno a loro si è allungata la vita, entro i limiti dettati dalla moda.

    Abbiamo visto chiudere negozi, ristoranti, alberghi. Passando davanti a una discoteca si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un reperto archeologico che racconta di un passato lontanissimo da noi. 

    La gita fuori porta è stata state sostituita dall’uscita sul terrazzo. La stretta di mano dall’alzata di gomito, e magari l’espressione indicasse ancora l’esagerazione alcolica. 

    Le strade intasate dalle auto sono state sostituite da un ordine irreale. Il lavoro in ufficio dall’impegno domestico, non meno invasivo, perché afferra le persone appena alzate al mattino e le accompagna a letto la sera, senza più barriere, né rispetto di quell’ordine mondiale degli orari e dell’organizzazione del lavoro che dava anche qualche certezza sui momenti di tendenziale riposo. Che la situazione sia oramai universalmente fuori controllo me lo dimostra una telefonata di lavoro che ho ricevuto l’estate scorsa, quando il mio interlocutore si è presentato con le seguenti parole: “Spero tu sia in ferie”. Ma perché – mi sono chiesto – spera che io sia in ferie? Avrebbe dovuto dire “spero tu non sia in ferie”, cioè spero di non disturbarti. E io avrei detto “sì, sono in ferie ma non ti preoccupare, dimmi pure”. Così sarebbe dovuta andare. 

    Il termine “infettivologo”, fino a ieri evocativo di malattie tropicali, lontani contagi di malaria,  tra il fascismo, le colonie e Fausto Coppi, ora individua subito dei personaggi familiari. Compagni dell’ora di cena. Un po’ come fu per i PM e i cronisti della “giudiziaria”, che all’improvviso, all’inizio degli anni ’90, sotto la scritta “Procvra”, conversavano con noi di “ atti dovuti” e “istanze al GIP”. E un giorno, chissà, guarderemo gli infettivologi con un po’ di compatimento, come degli attori hollywoodiani sul viale del tramonto. 

    Abbiamo preso confidenza con oggetti prima lontanissimi da noi. Le mascherine, ovvio. E adesso ci capita addirittura, quando vediamo in un film una bella immagine di una tavolata piena di persone, di pensare:  “Ma sono pazzi? Non si mettono la mascherina?”. Questo forse è il vero motivo per cui gli anni di Covid sembrano ben più dei quattro alla Totò che ho dichiarato all’inizio di queste mie inadeguate riflessioni.

    Perché questo è un tempo invasivo, che va a toccare anche i ricordi e si proietta nel futuro. Feste, anniversari, matrimoni di ieri indossano una maschera postuma, quelli di domani già la preparano. Chissà quanto impiegheremo a liberarci dall’ombra di questo incubo. Quando smetteremo di dire non solo “hai preso la mascherina?”, ma anche “pensa che assurdità, stavo per prendere la mascherina”? Ci vorranno anni, forse decenni per far sì che questa lunghissima stagione vada a finire nei meandri della coscienza, prima, e in qualche documentario notturno della Rai Storia come ora si parla della Spagnola.

    Non saprei che morale trarre da questo mio parzialissimo tentativo di bilancio. Forse che siamo diversi. Abbiamo imparato a vedere in una prospettiva nuova ciò che eravamo. Ci manca quello che prima davamo per scontato. Rivorremmo la nostra vita. Ne abbiamo diritto e ce la riprenderemo.


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  • ·Dieci giorni fa·

    Postato il 8 Marzo 2021
    A cura di Marco La Greca

    Dieci giorni fa, di mattina, è uscito sul terrazzo della sua casa e si è ucciso con un colpo di pistola.

    In questi giorni post Sanremo, in cui tutti parlano d’altro, non riesco a togliermi di dosso il pensiero di lui. Perché l’avevo conosciuto, Antonio Catricalà. Non bene, ma in maniera per me significativa.

    Era il febbraio del 1997, più o meno mentre si svolgeva il Festival di Sanremo, e Patty Pravo, allora davanti a un folto pubblico, cantava “Dimmi che non vuoi morire”. 

    Steso sul letto della caserma della Polizia nella quale alloggiavo durante il corso per agente effettivo, meditavo su cosa fare per mettere a frutto la mia laurea in giurisprudenza, dopo quasi due anni in cui l’avevo deliberatamente trascurata. 

    Puntai su un corso di preparazione al concorso in magistratura.

    Antonio Catricalà, che di quel corso era il docente di diritto civile, arrivava con l’auto di servizio, guidata dall’autista. Un uomo maturo e di successo, saggio ed equilibrato. Così lo vedevo io. Anche se, mi rendo conto, era ben più giovane di me ora. Ho sempre constatato la mia tardività, confrontandomi con la precocità dei talenti altrui. Annaspavo più che ventenne sull’esame di storia del diritto italiano, quando scoprii che Bartolo da Sassoferrato, alla mia età, era già l’esimio giurista tramandato dalle sue opere; sapevo poi dal liceo che Giacomo Leopardi, a quella stessa mia età, aveva scritto “L’infinito”.

    Bartolo da Sassoferrato

    In questo sentirmi tardivo e inadeguato, c’era lui, il Professor Antonio Catricalà, che durante le sue lezioni di diritto civile riusciva invece ad infondere coraggio, persino a me. “Quando sarete seduti al banco per affrontare un esame o un concorso”, si raccomandava, “prima di scrivere qualcosa leggete attentamente la traccia. E non vi curate di chi vedrete subito chino sul foglio a scrivere paginate intere; anzi, se potete, cercate lo sguardo di quel candidato e fissatelo”. Dopo una studiata pausa riprendeva: “Quello è lo sguardo di uno che verrà sicuramente bocciato”.

    Ci spiegava poi che non è tanto importante dimostrare di sapere, ma ragionare: “I concorsi si passano soprattutto perché si ragiona, si scrive in italiano e si ha voglia di passarli”. 

    In quello scampolo di corso che frequentai, affrontammo una sola esercitazione in aula. Antonio Catricalà restituiva il tema in dei brevi colloqui individuali. Quando toccò a me, sfogliando l’elaborato  disse: “Questo è un tema che passa”.

    Non passai quel mio primo concorso. Avevo studiato troppo poco. Dopo due anni di “debauche”, come la chiamava mio padre, troppo grande era lo scarto con quanti, invece, non solo avevano probabilmente studiato di più e meglio di me già all’università, ma avevano continuato a coltivare con impegno gli approfondimenti post universitari. Non me ne crucciai. Era giusto così. Il tutto mi servì a capire due cose: che mi dovevo impegnare di più, perché la concorrenza era spietata, e che ce la potevo fare. Sennò lui, Antonio Catricalà, non mi avrebbe detto: “Questo è un tema che passa”.  

    Il settembre successivo mi iscrissi a un altro corso, molto celebrato, di preparazione in magistratura. Le cose si combinarono in modo tale che mi sono poi trovato a superare un concorso che non credevo fosse alla mia portata. Lo stesso con cui Antonio Catricalà, molto più giovane di me, aveva iniziato la sua folgorante carriera. Sentii il bisogno di andarglielo a dire. Mi salutò con cordialità, quasi affetto: “Mi ricordo di te, eri bravo, sapevo che ce l’avresti fatta”. 

    Ora è appena terminato il Festival di Sanremo. Dovrei parlare di questo, forse. E però penso a lui. Che ha deciso di andarsene, a febbraio. I giornali hanno scritto di una depressione e mi sembra incredibile. Lui, così sicuro, stabile, saggio, colto. Chissà. 

    Mi torna alla mente una canzone di Vecchioni che ascoltavo molto nel periodo in cui frequentavo quel corso e cercavo di capire cosa sarebbe stato di me. E in particolare una strofa, che parlava dell’ambizione e di chi, dopo aver conquistato tutto, si trova di fronte “allo stesso sole disperato di quando era partito”. 

    Patty Pravo, dunque, cantava “Dimmi che non vuoi morire”, sullo sfondo il “sole disperato” di Roberto Vecchioni. Mentre ripenso a quello che è successo, ascolto una giovane artista che ora, da quello stesso palco di Sanremo, davanti a una platea vuota, intona il verso “Adesso che non ci sei più”. Ecco. A me pare che questi tre versi, che rotolano quasi casualmente nella roulette dei ricordi e del presente, custodiscano il segreto di una storia che probabilmente non capirò mai. Ma non importa. Perché basta ragionare, scrivere in italiano, avere voglia di farcela. Vero Professore? 


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  • ·L’eterno ritorno·

    Postato il 21 Febbraio 2021
    A cura di Marco La Greca

    Entrando in un negozio di abbigliamento giovanile, mi rendo conto che gli stili ritornano, tutti. Già qualche anno fa mi ero sorpreso a scoprire che erano tornati di moda gli orologi della Casio, quelli che la mia generazione aveva scoperto tra le elementari e le medie, avventurandosi nella tecnologia, nelle fantastiche possibilità del futuro: non era mai successo che l’orologio da polso potesse offrire, insieme all’ora, anche il cronometro, la sveglia, la luce. Improvvisamente, nessuno ne poteva fare a meno. Embrionali forme di smartwatch, rappresentavano il moderno, che a un certo punto, però, venne dismesso, quando tornarono di moda le lancette, i funzionamenti meccanici. Quegli orologi digitali, orrendi se visti con il mio sguardo attuale, sono incredibilmente tornati di moda pochi anni fa e tuttora sono al polso degli adolescenti di oggi. Si tratta proprio di quei modelli, con quelle basiche funzionalità, quello stile, quel marchio. 

    Aggirandomi per gli scaffali del negozio di abbigliamento, penso che per fortuna a un certo punto si è affermata per i jeans una linea “a tubo”. Perché detestavo, indosso a me, sia le “zampe d’elefante” che i pantaloni larghi e corti, magari pure con il risvoltino, degli anni ’80. Anche se, ovviamente, ho passato quelle fasi, cercando di adeguarmi, per come potevo, a ciò che andava di moda. Mi viene in mente quando, usciti vincitori dalla trattativa intavolata per tempo con i nostri genitori, con il mio amico di sempre andammo, timidi quindicenni, in un negozio molto simile a questo e comprammo il piumino che serviva per essere all’altezza della situazione, per non essere almeno guardati come animali strani. Ce lo comprammo della stessa marca, dello stesso colore, della stessa taglia. Erano gli ultimi due rimasti, ma comunque il fatto che fossero identici servì in qualche modo a farci coraggio nell’acquisto. Evocati dagli oggetti, risuonano nella mente voci e parole: mie, degli amici, dei miei genitori, di chi era con me. Cazzeggi e raccomandazioni. 

    E’ con la dolcezza del ricordo di quei tempi e dell’amoroso sguardo paterno che mi accorgo, salutando mia figlia in procinto di uscire con le amiche, che indossa dei jeans corti, con il risvoltino, e come soprabito un piumino, anch’esso corto e gonfio, che ricorda precisamente quello indossato dai “paninari” dei miei tempi. Sembra uscita da una foto degli ‘anni 80. Potrebbe essere una mia compagna di classe. Prima di uscire controlla l’ora, al polso ha l’orologio della Casio. La accompagno alla porta e la saluto con un bacio sulla fronte: “Divertiti”, le dico, “ma fai attenzione a tutto, mi raccomando, e non fare tardi”. Perché l’eterno ritorno, capisco nel momento stesso in cui pronuncio queste parole, non riguarda solo gli abiti e gli oggetti.


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